Coronavirus, i primi dati su quanto si sottostimano i contagi

Quante sono realmente le persone colpite dal nuovo coronavirus? Questa è la domanda, se non del secolo, sicuramente dell’anno 2020. Ma non è facile rispondere, perché come sappiamo con i tamponi sono stati rilevati soltanto una parte dei contagiati, sicuramente sottostimata rispetto al numero reale. A questo scopo già da qualche tempo si parla dei test sierologici, analisi sul sangue che possono indicare se una persona ha contratto l’infezione in tempi più o meno recenti. I test, già sperimentati in diversi ospedali, sono in partenza in Italia. Nel frattempo, in alcuni paesi, come Germania e in una regione degli Stati Uniti, c’è già qualche risultato preliminare di ricerche, non ancora peer reviewed, che forniscono ipotesi sulle percentuali della popolazione realmente colpita. Anche se diversi scienziati sollevano dei dubbi su questi dati. Ecco le potenzialità e i limiti attuali di queste indagini.

Perché i test sono importanti

I test sierologici sono analisi sul sangue per individuare la presenza di specifici anticorpi contro il nuovo coronavirus, che indicano se la persona ha avuto un’infezione in tempi più o meno recenti e che potrebbero – ma ancora bisogna accertarlo – far capire se questi anticorpi sono sufficienti a proteggere la persona da una seconda infezione. In Italia non abbiamo ancora dati dei test su larga scala, ma sappiamo certamente che un’ampia fetta della popolazione ha avuto l’infezione senza sintomi: nel comune molto colpito di Vo ben il 43% delle persone risultate positive al Sars-Cov-2 tramite tampone non avevano sintomi. Anche per questo capire quanti cittadini e dove (ogni regione è stata colpita diversamente) hanno contratto l’infezione e hanno sviluppato un’immunità verso il nuovo coronavirus – che potrebbe proteggerli da una seconda infezione – può essere essenziale. E può esserlo non solo per conoscere meglio le caratteristiche del virus ma anche per avere informazioni che potranno essere utili per decisioni sulle misure da prendere e su come eventualmente allentare il lockdown.

Cosa emerge dai primi studi in Germania e negli Usa

Quello che è certo, ad oggi, è che la fetta di popolazione che ha avuto o ha un’infezione è più alta rispetto a quella finora rilevata (tramite i tamponi). Le percentuali fornite da indagini preliminari svolte in Germania e negli Usa e rese note oggi sono molto differenti fra loro e questo può generare confusione. Ma innanzitutto bisogna ricordare che ogni paese, e all’interno del territorio ogni regione e città, sono stati colpiti dal Sars-Cov-2 con intensità e estensione diversa: per questo, ad esempio, i positivi in Lombardia che hanno sviluppato anticorpi saranno sicuramente molti di più rispetto a quelli di altre regioni italiane. Dunque, le differenze fra aree geografiche, paesi e continenti non devono far pensare che i test sierologici non siano validi. Ciò che ancora manca, però, in tutte le ricerche, che sono per ora studi pilota, è la presenza di un campione più vasto che sia considerato rappresentativo della popolazione. Finora, le indagini si basano sui test svolti su centinaia o al massimo poche migliaia di persone. In Italia, sono stati annunciati test su 150mila persone e alcuni esperti ribadiscono la necessità di usare un unico tipo di test in modo da avere risultati uniformi. A volte anche i criteri di selezione possono avere un peso: è importante avere criteri omogenei – dove le persone testate non abbiano avuto tutte dei sintomi oppure al contrario senza alcun sintomo – in modo da fornire risultati rappresentativi. Insomma, solo il tempo ci darà una risposta più chiara.

I test sierologici in Germania

Uno dei primi studi su vasta scala svolto con i test sierologici è tedesco e condotto dal virologo Hendrik Streeck dell’università di Bonn. I risultati, riportati in un articolo su Science, riguardano la città di Heinsberg che ha avuto un focolaio importante. Dall’indagine è emerso che su 500 persone sottoposte al test sierologico il 14% abbiano gli anticorpi contro il virus. Questo, spiegano gli autori dello studio, indica che circa il 15% della popolazione non può essere infettata nuovamente. Facendo il rapporto fra decessi e numero di contagiati (la letalità), poi, si ottiene un valore – provvisorio, come sempre – pari allo 0,37% mentre per l’influenza parliamo dello 0,1%. Tuttavia, qualche scienziato ha delle perplessità sul risultato. Christian Drosten, ad esempio, virologo del Charité University Hospital a Berlino, sottolinea che non si possono trarre conclusioni dalla ricerca in questione, dato che su un campione rappresentativo limitato. Spesso, infatti, gli autori hanno svolto i test su intere famiglie, dove la diffusione del virus è maggiore, spiega Drosten, e dunque il campione potrebbe sovrastimare i casi e non essere rappresentativo. Inoltre, non sappiamo ancora se il livello di immunità sia sufficiente a proteggere da una re-infezione.

L’indagine in California

C’è poi un primo studio sierologico statunitense, non peer reviewEd e pubblicato in preprint su medrxiv, che è stato condotto in California e precisamente nella provincia di Santa Clara. I ricercatori hanno coinvolto i partecipanti tramite avvisi su Facebook e hanno svolto test sierologici su 3.300 persone. I loro risultati mostrano che le percentuali di popolazione colpita oscillerebbero fra circa il 2,5 e il 4%. Queste cifre corrispondono a una stima di 80mila persone colpite, circa 50 volte più alta rispetto ai positivi rilevati (tramite i tamponi). E questo abbasserebbe notevolmente la letalità, il rapporto fra deceduti e contagiati, dato che i contagiati sarebbero molti di più. E questa potrebbe essere una ragione per valutare se stringenti misure restrittive e lockdown siano utili e abbiano un senso, come scrivono Eran Bendavid, che ha coordinato lo studio insieme a Jay Bhattacharya, e il coautore John Ioannidis. Ma anche in questo caso qualcuno solleva delle perplessità che riguardano le modalità di selezione del campione, dato che le persone coinvolte tramite Facebook potrebbero aver partecipato perché avevano sintomi simil-influenzali e dunque anche in questo caso potrebbe esserci una sovrastima dei casi con immunità.

Altri studi con i test sierologici

C’è poi un piccolo studio a Chealsea, vicino a Boston, che mostra le percentuali più alte di popolazione che ha contratto l’infezione rilevata tramite test sierologici. Il test è stato effettuato in un campione di 200 passanti, di cui 63 – il 31,5% – aveva sviluppato anticorpi contro il coronavirus. Ma anche in questo caso, lo stesso autore Vivek Naranbhai sottolinea come questo campione non sia rappresentativo della popolazione della città. Un altro studio sierologico, nei Paesi Bassi, di cui non abbiamo ancora i dati dettagliati. Gli autori riferiscono però che in base ai risultati l’immunità di gregge – che corrisponderebbe al 60% della popolazione con anticorpi – è ancora lontano. (Wired)