Frattura alla mano: come si riconosce

(di Antonella Sparvoli per Corriere.it) – Più della metà dei traumi ortopedici riguardano la mano. «Nella mano è difficile dare stabilità a una frattura perché disponiamo di poco spazio e non possiamo contare su un segmento osseo a valle» spiega il professor Giorgio Pajardi, direttore della Unità Operativa Complessa di chirurgia della mano dell’Ospedale San Giuseppe di Milano e docente di chirurgia della mano all’Università di Milano. «Per questo spesso, può rendersi necessaria una stabilizzazione con viti o placche, per evitare che l’osso non si saldi nella posizione corretta, con conseguenze estetiche e funzionali, nonché rigidità, che si può verificare per la formazione di aderenze tra i tendini e l’osso che si sta consolidando. Il rischio di rigidità è maggiore se si immobilizza la frattura con un gesso o un tutore, mentre se si ricorre a viti o placche è minore perché questa soluzione permette di muovere la mano sin da subito con l’aiuto di un fisioterapista adeguatamente preparato».

Quali sono le ossa della mano che si fratturano con più facilità?
«Quelle del metacarpo, che, tipicamente, si possono rompere quando si tira un pugno su una superficie dura. Se a sferrare il pugno è un pugile professionista è più facile che a fratturarsi siano il secondo e il terzo dito (indice e medio), il dilettante tende a deviare la mano e quindi a fratturarsi le teste dei metacarpi di quarto e quinto dito (anulare e mignolo). Il pollice è invece il dito, in generale, più a rischio di frattura stante la sua maggiore mobilità. Quando la mano subisce un trauma, nel tentativo per esempio di afferrare una palla piuttosto che per una caduta, accade facilmente che le capsule articolari vadano in tensione senza rompersi e che a fratturarsi sia solo l’osso. Non a caso, la maggior parte delle fratture ossee della mano si verificano vicino alle articolazioni. Anche le fratture delle falangi delle dita sono abbastanza frequenti. Un dito si può rompere quando si schiaccia in una porta o quando si appoggiano le mani a terra per frenare una caduta, oppure, per esempio, giocando a basket o a pallavolo, se la palla provoca una distorsione».

Da che cosa si capisce se c’è una frattura a un osso della mano?
«Dal dolore intenso dopo un trauma, dalla scarsa mobilità, dal progressivo gonfiore dell’area dolente e dalla formazione di un livido. Tutti questi sono segnali di una probabile frattura. Se poi è evidente una deformazione del profilo anatomico, per esempio, di un dito (a causa di una probabile frattura scomposta), il sospetto diventa quasi una certezza che, però, si può avere solo facendo una radiografia. Nelle situazioni che appaiono gravi sin da subito conviene recarsi al Pronto soccorso, altrimenti ci si può organizzare per fare una radiografia nei due o tre giorni successivi».

Quali rimedi si possono adottare dopo un trauma?
«Per alleviare il dolore e ridurre il gonfiore, si consiglia sempre di applicare ghiaccio e mantenere la mano in posizione elevata rispetto al cuore. Poi, una volta accertata la presenza della frattura, la sua posizione e le caratteristiche (per esempio composta o scomposta) l’ortopedico valuterà il trattamento conservativo o chirurgico più adatto. Di solito se le fratture sono molto complesse e, soprattutto, se si associano a lesioni di altri tessuti (come nervi o tendini), viene coinvolto il chirurgo della mano, spesso interpellato anche in caso di esiti non soddisfacenti di trattamenti precedenti».

Gesso o tutore?

La scelta del trattamento più adatto deve tenere conto di molti fattori, a partire dal tipo di frattura e dalla sua stabilità. «Quando con il gesso o un tutore si riesce a dare stabilità alla frattura, si può optare per questo approccio, che ha il vantaggio di non essere invasivo ma il difetto di immobilizzare l’area interessata per almeno due o tre settimane, aumentando il rischio di rigidità» spiega il professor Giorgio Pajardi. «La possibilità di un intervento chirurgico va considerata in caso di fratture scomposte o in prossimità dell’articolazione. Nel primo caso, idealmente, si procede prima alla riduzione, cioè la manovra per rimettere in asse i frammenti ossei e poi all’applicazione di viti o placche per fissarli. Nel caso di fratture avvenute vicino all’articolazione il ricorso a viti e placche spesso ottiene il risultato migliore anche perché in questo modo si riduce il rischio di sviluppare un’artrosi precoce dell’articolazione interessata».