Pavimento pelvico, la vergogna e il silenzio delle donne

(di Francesca Sironi per Repubblica.it) – Parte importante e fragile. Di cui i ginecologi si disinteressano. Se danneggiata causa dolori e difficoltà sessuali. Spesso colpa di un parto sbagliato. Ma la riabilitazione è possibile.

Aveva 29 anni, una bimba di cinque e un problema. Soffriva di incontinenza notturna. «La prima volta che l’ho incontrata è arrivata accompagnata dalla madre. Rimaste sole, dopo alcuni incontri, ho scoperto che il suo disturbo aveva una radice molto più grave di quel sintomo. Lei aveva subito infatti violenza per anni. Ogni notte temeva i rapporti col compagno. Ma non aveva mai avuto il coraggio di denunciare ». Veronica Ricciuto è una giovane ostetrica di Roma specializzata in riabilitazione del pavimento pelvico, ovvero di quel diaframma che racchiude le pelvi contenendo gli organi dell’apparato genitale, l’intestino, la vescica. «È una parte del nostro corpo fondamentale, di cui dovremmo imparare a essere più consapevoli. Spesso i ginecologi però – spiega – non trattano ancora l’argomento con l’attenzione che merita. Ci sono molte emozioni racchiuse in quest’area. E le patologie che la riguardano, spesso taciute per vergogna, hanno un impatto rilevante sulla qualità della vita delle donne».
Le disfunzioni del pavimento pelvico sono principalmente tre: incontinenza, disturbi sessuali (dolore durante i rapporti), e nei casi più gravi, prolassi. In larga parte possono essere evitate con la ginnastica, «anche se non bastano quattro esercizi di respirazione. Serve ascolto», insiste Ricciuto. Ascolto, cioè quello che manca. Anche se l’attenzione è aumentata. «Partiremo a breve – spiega Vito Trojano, vicepresidente della Società italiana di ostetricia e ginecologia (Sigo) – con la prima ricerca nazionale epidemiologica di vasta scala e un’occasione importante per raccogliere le migliori pratiche di prevenzione. Perché molto si può fare per “educare” il pavimento e rafforzarlo».

Una ricerca pubblicata a novembre dallo European Journal of Obstetrics & Gynecology and Reproductive Biology condotta su 1.293 neomamme dell’ospedale Buzzi di Milano ha rilevato che un terzo di loro segnalava disturbi pelvici a tre mesi dal parto. Quattro i principali fattori di rischio al parto: l’aver avuto sintomi prima o durante la gravidanza, la presenza di gravi lacerazioni perineali e l’uso della ventosa. «La riabilitazione del pavimento pelvico – commentano gli autori del rapporto – può essere offerta come un efficace trattamento di prima linea. Agire per il rafforzamento dopo il parto è un concetto ampiamente accettato ormai. Ma esistono ancora incertezze su come rendere quest’idea realtà». Renderle realtà diffusa, conoscenza. È lì la sfida. Fra le cause, in prima linea, insistono le ostetriche, c’è la persistenza dell’episiotomia di routine, di quel “taglietto” per il parto vaginale che il 34,7% delle donne in Italia subisce e che molti esperti considerano spia di scorretta pratica: i “taglietti”, infatti, diminuiscono all’aumentare della qualità del reparto.

«C’è stato sicuramente un abuso di episiotomie – commenta Elsa Viora, primo presidente donna dell’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani – ma la medicina cambia e ora l’attenzione alla prevenzione per il pavimento pelvico è alta». Dallo Yoga, ai laboratori specifici, alle migliaia di pagine web con schede e esercizi (su Google le ricerche a proposito sono più che raddoppiate dal 2012 a oggi), l’argomento sembra infatti aver conquistato grande spazio. Ma non nei luoghi di contatto. «Parlo da uro-ginecologo: molti miei colleghi – , commenta Andrea Braga, capoclinica all’Ospedale di Mendrisio – sono ancora troppo diffidenti o restii a parlare delle disfunzioni del pavimento pelvico con le loro pazienti». In Italia il tema viene affrontato quasi soltanto nei buoni corsi di accompagnamento alla nascita. In Francia invece sono molto più sensibili. «Sono le ragazze stesse a chiedere percorsi dedicati – racconta Caterina Pozzoni, ostetrica a Mestre – e la prevenzione non è solo questione di esercizi, ma anche di abitudini. Come quella di fare la pipì all’ultimo momento, comune a tante. Va cambiata». Per farlo bisogna imparare a conoscersi. E a parlarne. Uno studio condotto su 28 centri degli Stati Uniti nel 2015 mostrava come più di metà degli operatori sanitari non ne avesse mai discusso con le proprie pazienti. Nel 40% dei casi la motivazione era la mancanza di tempo, nel 30 le poche informazioni. Per il 15% dei dottori si trattava invece semplicemente di un argomento non fondamentale. Di piccoli disagi “normali”, di cui non era importante occuparsi. Per capire che non è così, basterebbe chiederlo alle donne.